VASELLAME E STOVIGLIE

A rispecchiare il progressivo mutamento nelle abitudini alimentari è il dato fornito dagli scavi archeologici, che hanno evidenziato una diminuzione nella produzione e nell’uso di ceramiche da cucina e da tavola. Tale cambiamento riflette altresì nell’alto medioevo una diversa situazione politica, culturale, economica ed etnica rispetto all’omologazione di lingua, usi e costumi che aveva imposto l’Impero Romano nelle sue province.
Se in precedenza la ceramica grezza era utilizzata quasi solo esclusivamente in cucina, per la preparazione, del cibo, nell’alto medioevo fu impiegata per tutte le attività domestiche.
Una delle forme più tipiche in cui era lavorata la ceramica è l’olla; questa poteva essere posta direttamente sul focolare, oppure colmata per fungere da dispensa delle provviste, senza dimenticare che fungeva anche da bicchiere nelle sue varianti più piccole.
Anche le stoviglie si adeguarono ai cambiamenti in campo economico; pertanto, la produzione silvo-pastorale e l’introduzione di una cerealicoltura con grani più resistenti, influiva anche nelle preparazioni gastronomiche. Così, fecero la loro comparsa grandi piatti da cui tutti i commensali potevano servirsi di plumenta, ossia polente e zuppe, insieme a catini destinati alla preparazione delle vivande, alla conservazione di liquidi e granaglie, o anche utilizzati come bacili per lavarsi.
Non mancavano poi i catini-coperchio, dotati di fori di sfiato e prese laterali che occorrevano per coprire braci incandescenti o tenere al caldo le vivande o, ancora, utilizzati come piccoli forni per cuocere a riverbero il cibo.
In cucina, molti utensili e stoviglie come secchi, scodelle, ciotole e cucchiai erano realizzati in legno e in fibra intrecciata; perciò, ne sono rimasti solo rari esemplari conservati e giunti fino a noi.
Secondo la testimonianza del vescovo italiano Paolino di Nola (355 – 431), il legno più largamente impiegato per la realizzazione di stoviglie e utensili da cucina era quello di bosso, mentre i recipienti metallici, anche se presenti e attestati da reperti archeologici, erano scarsamente diffusi a causa del costo elevato, che li rendeva simbolo di ricchezza e di appartenenza a un rango sociale più elevato, oppure li destinava ai corredi funerari. Proprio per via del grande valore economico del corredo da cucina in metallo, nell’alto medioevo era usanza destinarlo ai discendenti per via testamentaria, come eredità.
Invece, molto diffusi erano o contenitori realizzati in pietra ollare: pentole e tegami a forma di tronco di cono o cilindrica con o senza manico. Questi manufatti erano decorati all’esterno da una serie di solcature parallele orizzontali, più o meno larghe e fitte.
La scelta di impiegare questo particolare tipo di roccia metamorfica risiede nella sua compattezza e, al tempo stesso, nella facilità con cui poteva essere lavorata, nella sua resistenza al calore e, infine, nella sua larga diffusione in tutta l’area alpina, dalle Alpi Marittime elle Retiche, passando per le Orobiche.
Lo sfruttamento di questa pietra ha inizio già prima dell’età del Ferro e se ne attesta una diffusione capillare e costante nel tempo per realizzare utensili e pentolame da cucina, dal IV secolo fino all’epoca preindustriale. Ciò è dovuto alle proprietà della pietra ollare, che permette di mantenere inalterate le caratteristiche dei cibi e di conservare a lungo il calore e le basse temperature.
Tra i reperti archeologici più importanti nell’area dell’Italia settentrionale c’è la cosiddetta ceramica longobarda: una serie di recipienti per liquidi come brocche, bottiglie dal collo alto, fiasche, bicchieri e coppette databili in un arco cronologico compreso tra la metà del VI e la metà del VII secolo.
Si tratta di una ceramica lavorata “a stralucido” mediante una stecca, tecnica che conferisce ai manufatti l’impermeabilità.
Realizzata al tornio, questo tipo di ceramica è decorata con motivi geometrici a rilievo, che venivano impressi a crudo utilizzando punzoni in corno, terracotta o metallo (ceramica “a stampiglia”), oppure con steccature che formano motivi a graticcio, triangolo e lisca di pesce, perciò chiamata “a stecca”.
A differenza di quanto avvenne nelle regioni del nord della penisola, le popolazioni giunte nelle zone Meridionali a seguito delle invasioni preferirono continuare ad utilizzare lo stesso tipo di vasellame abitualmente prodotto dai vasai e dalle officine locali, senza soluzione di continuità con la tradizione tardo romana.
L’elemento distintivo delle casate nobili fu invece l’introduzione di manufatti di vetro come bicchieri e bottiglie a base apoda con lungo collo cilindrico e ventre globulare, oltre che alle forchette da portata in metallo.
Impiegate già anticamente dai Romani e dai Bizantini, che tuttavia avevano la consuetudine di consumare il cibo già tagliato in bocconi durante la fase di preparazione, in cucina, le forchette sono considerate dei veri e propri capolavori di metallurgia provenienti dall’Oriente.
Non a caso, l’esemplare più antico giunto sino a noi è una forchetta a tre rebbi databile tra il II e III secolo d.C. e attualmente conservata al Metropolitan Museum di New York, mentre la sua rappresentazione iconografica è contenuta nel Codice delle Leggi Langobarde del monastero della Cava (Sa). All’interno del testo, è presente una miniatura che raffigura re Rotari a tavola, mentre è intento a pulire un pesce con coltello e forchetta. Si tratta però di eccezioni: la forchetta individuale venne introdotta solo successivamente, mentre il cucchiaio faceva parte della dotazione di ogni commensale già sulle tavole imbandite dell’Antichità.

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