L’INCOLTO

Dai documenti giunti dall’età dei Longobardi ai giorni nostri, possiamo rilevare che molto spesso veniva citato anche il terreno incolto, indicato in diversi modi; tra i più frequenti, troviamo, ad esempio, i vocaboli silva e boscus.
La ricorrenza di tali parole, ci fa intuire che anche l’incolto rivestiva un ruolo fondamentale nell’equilibrio dell’economia rurale di quei secoli.
Infatti, sappiamo che l’allevamento allo stato brado dei suini e di altri animali veniva praticato nei boschi di faggi e di querce, la cui estensione veniva misurata proprio in base al numero di capi che vi si potevano crescere.
Invece, i castagneti, già noti e menzionati fin dall’epoca romana, erano considerati come una risorsa ancora più preziosa, poiché i castagni erano annoverati tra gli alberi da frutto, come peri, meli e noci.
Vi era poi il bosco ceduo (silva astalaria o stalaria, virgarium), che godeva di minore considerazione poiché dal taglio dei suoi alberi si ricavava il legname necessario alla sistemazione dei filari di vite nei vigneti. Da un documento risalente al 984 possiamo apprendere che un appezzamento di silva stalaria di uno iugero, cioè di un’estensione pari a 7900 mq, aveva un valore di vendita di 14 soldi.
Molto spesso, nei pressi dei boschi si trovavano delle paludi, indicate con i nomi di mosa o liskedo.
Queste zone erano di libero accesso e venivano sfruttate come terreno di caccia alla selvaggina e di pesca di acqua dolce. Inoltre, nelle zone costiere più vicine al mare, era possibile impiantare delle saline da cui procurarsi il sale, prezioso come l’oro per le sue proprietà conservanti dei cibi.
Infine, bisogna ricordare che una delle possibili varianti dell’incoltus poteva essere il pascolo naturale, noto anche come terra pascua o terra arva. Questo consentiva di integrare le risorse del bosco e del sottobosco, garantendo il soddisfacimento della maggior parte degli animali da allevamento.

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