LE BEVANDE

Contrariamente a quello che si potrebbe ritenere, le abitudini in fatto di bevande nell’alto medioevo erano assai differenti dalle nostre.
Per quanto possa sembrare arduo a credersi, l’acqua non era presente sulle tavole poiché era il veicolo principale di diffusione di germi e malattie. Per questo. Era preferibile rifornirsi di acqua piovana, quando possibile, piuttosto che attingere dai pozzi o dai corsi d’acqua nei pressi dei villaggi, che doveva essere a lungo bollita per essere purificata; solo a quel punto, l’acqua poteva essere aggiunta e mescolata al vino, bevanda ritenuta sanificatrice.
Molto spesso, l’acqua bollita poteva anche essere aromatizzata con succhi di frutti di bosco, come lamponi, mirtilli e more. Questi, oltre a migliorarne il gusto, rendevano l’acqua immune ai batteri poiché fermentavano con il passare del tempo.
A rimpiazzare l’acqua sulle tavole era un’altra bevanda assai diffusa: l’idromele.
Si trattava di una miscela di acqua bollita e miele lasciati fermentare. Di sapore dolciastro, era stata introdotta dai popoli baltici e balcanici, che ne parlavano come della “bevanda degli dei”.
Altrettanto amato e diffuso era l’ossimello, di sapore agrodolce: una miscela di miele e aceto che fungeva da condimento per le carni e le uova.
La bevanda protagonista dell’alimentazione alto medievale era però il vino, che rivestiva un ruolo molto importante per tre aspetti fondamentali. Esso era anzitutto un’immancabile presenza sulla tavola, un elemento sacro nella celebrazione della liturgia cristiana, ed infine era noto come farmaco curativo per le sue proprietà antisettiche.
Tanto le tribù germaniche prima, quanto i Longobardi in seguito, ritenevano che il vino avesse la capacità di trasmettere saggezza e conoscenza; pertanto, si trattava di una dalle nobili proprietà.
Per i Cristiani, il vino aveva invece valore sacro, in quanto durante le celebrazioni eucaristiche, attraverso il dogma della transustanziazione, diveniva il sangue stesso di Gesù distribuito ai discepoli nel corso dell’Ultima Cena.
Infine, i medici consideravano il vino una bevanda igienicamente sana, dalle virtù fortemente antisettiche e, quindi, farmaco indispensabile per guarire ferite, malattie e purificare gli organismo corrotti dagli “umori neri”.
Data l’alta considerazione e la popolarità di cui godeva il vino, sia i grandi proprietari terrieri laici sia quelli ecclesiastici facevano coltivare la vite ovunque possibile nei propri appezzamenti, al punto che in quest’epoca si crearono vigneti anche in aree e condizioni climatiche sfavorevoli a questo tipo di produzione agricola.
Tuttavia, si faceva ricorso all’importazione solo raramente. Chi attuava questa pratica, voleva affermare il suo prestigio sociale ed era disposto ad accollarsi anche un esborso economico notevole. Pertanto, la maggior parte della popolazione preferiva produrre in loco il vino per soddisfare le necessità della famiglia o della comunità.
Di conseguenza, si può affermare che il vino fosse una bevanda il cui consumo era trasversale rispetto alla stratificazione in ceti della società e che fosse presente sulle tavole tanto dei meno abbienti quanto sulle mense dei guerrieri e dei nobili.
Ciò che cambiava era la qualità del vino: se i ricchi potevano spaziare tra una varia scelta, gli umili dovevano accontentarsi di quello ricavato dalla spremitura delle vinacce.
Purtroppo, ancora oggi gli studiosi non sono stati in grado di stabilire quali fossero le varietà di vitigni coltivati nell’alto medioevo, né quale specifico vino fosse il più consumato.
In generale, per quello che riguarda l’età comunale, l’unico dato certo è che il rosse fosse preferito in autunno e in inverno, mentre d’estate era il vino bianco a essere prediletto, perché più leggero.
A dare un tocco speciale al vino provvedeva poi l’usanza di aggiungervi spezie o aromi di vario genere, oppure il miele (da qui i termini mulsum o melicratum). La bevanda ottenuta veniva poi conservata in anfore o in fiaschi, protetto da un leggero strato di olio.
Altrettanto diffuso era il consumo della birra, il cui nome, cervisia, deriverebbe forse dalla dea del raccolto Cerere.
Questa bevanda era diffusa soprattutto nella zona dell’Europa continentale, dove veniva consumata anche nei refettori delle comunità monastiche maschili, mentre nell’area mediterranea è scarsamente menzionata e attestata anche tra i reperti archeologici.
Il medico-gastronomo Antimo decantava le qualità della birra, che assimilava quasi alle tisane per proprietà benefiche. La definiva “la più salutare tra le bevande fredde” e, quindi, da preferirsi anche all’assenzio e all’idromele.
Bisogna precisare che, al contrario della birra ricavata dal luppolo, dal sapore amarognolo, quella altomedievale era una bevanda assai dolce.
Della sua preparazione ci riferisce il medico alessandrino Zosimo di Panopoli, vissuto nel IV secolo. Egli, nel suo trattato da titolo De zythorum confectione, affermava che solitamente la birra era a base di orzo, spelta o farro fermentati insieme a succo di datteri o miele e perciò veniva chiamata mellita cervisia.
Ne esistevano molte altre varianti, aromatizzate con erbe quali il timo, la salvia, le bacche di ginepro, la lavanda, l’assenzio e così via.
Infine, esistevano altre bevande ricavate dalla fermentazione di frutti, soprattutto selvatici, di vario genere. Ecco allora nascere il sidro di mele, di pere, di more, di mirtilli, di lamponi e di prugne, bevande che Isidoro di Siviglia nella sua opera Etymologiae (III, 16) chiama i: sicera, cioè “ogni bevanda che oltre al vino è in grado di dare ebbrezza”.

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