L’AGRICOLTURA CURTENSE

Nell’ultima fase del dominio dei Longobardi, nel corso dell’VIII secolo, anche in Italia settentrionale si diffuse un nuovo modello di organizzazione territoriale: la curtis, termine da cui deriva la parola italiana “corte”.
Nel contesto alto medievale, questo vocabolo indica più precisamente una porzione di territorio al cui centro si trovava la dimora del signore locale, che esercitava una forma di controllo economico, politico e sociale in tutta l’area circostante.
Quella che viene definita economia curtense è una fase di passaggio, tipica dell’alto medioevo, tra il mondo romano, organizzato in base al sistema delle villae già a partire dal II secolo, e quello della signoria fondiaria propria della fase successiva, il feudalesimo.
I latifondi, cui in parte le curtes sono assimilabili, sono una forma di organizzazione economica agricola e territoriale in uso fin dall’epoca imperiale romana.
Infatti, a causa delle pesante imposte che gravavano sui contadini, molti di loro, specie i possessori di appezzamenti di piccola e media estensione, preferivano mettersi alle dipendenze dei latifondisti che, in cambio dell’usufrutto della terra, chiedevano ai coloni una percentuale sul raccolto. A loro volta, i grandi proprietari terrieri erano riusciti ad assicurarsi da parte del potere centrale il diritto all’esenzione da alcune tasse e ad esercitare sul proprio territorio una forma di controllo fiscale, giuridico, militare e politico, simboleggiato dalle loro dimore, le ville (villae).
A seguito delle invasioni barbariche e dello spopolamento dei centri urbani, molti uomini scelsero volontariamente di assoggettarsi ai latifondisti pur di ottenere sicurezza, protezione e mezzi di sussistenza.
In Italia, a seguito dell’invasione e della conquista della penisola di Alboino, i vecchi possedimenti gestiti dall’aristocrazia fondiaria romana furono acquisiti dai nuovi dominatori, i Longobardi.
Costoro, in realtà, molto spesso preferivano evitare la depredazione e il sequestro delle terre, limitandosi a imporre ai latifondisti imposte sempre più elevate, che potevano variare da 1/3 (tertia) fino a metà del raccolto, in cambio di protezione militate da parte dell’esercito longobardo.
Inoltre, i coloni erano anche soggetti a tributi pecuniari e a richieste di prestazioni gratuite di lavoro, in particolare durante il periodo del raccolto, le cosiddette corvée.
La curtis è un modello diffuso, anche in Europa, lungo la valle del fiume Rodano, che attraversa la Germania, la Francia Orientale e parte della Svizzera.
Le curtes potevano differire per tipologia tra di loro. Ne esistevano di demaniali, di ducali e di regie. Queste ultime erano governate da gastaldi, ossia “preposti”, o da exercitales, ovvero uomini di fiducia del re.
Il cuore della curtis coincide con la dimora del signore, da dove esercitava il controllo sul territorio, e il complesso di edifici ad essa collegati, come le stalle, i granai, i mulini con le macine in pietra, le modeste abitazioni dei servitori e la cappella privata, dove venivano celebrate le funzioni religiose.
Accanto al maniero del signore, generalmente era solita sorgere anche la casa del fattore, ossia la persona che doveva sovraintendere alla ripartizione e all’immagazzinamento dei prodotti della terra e tutto ciò che veniva realizzato all’interno della curtis.
La corte era divisa in due tipologie di territorio, amministrate in modo differente dallo stesso proprietario.
Il nucleo centrale era detto pars dominicia, poiché vi risiedeva il dominus, cioè il signore, che solitamente aveva un’età tale per cui veniva identificato anche con il senior, “l’anziano, il vecchio” della comunità, cui tutti dovevano obbedienza e rispetto; è proprio da questo termine che deriva la parola italiana “signore”. La pars dominicia era gestita direttamente dal padrone, che vi faceva lavorare i “servi prebendari”, così definiti perché ricevevano vitto (praebenda) e alloggio.
Vi era poi un secondo territorio chiamato pars massaricia, diviso in mansi, ovvero unità lavorative di estensione variabile, date in affitto a famiglie di coloni, liberi o asserviti, che lavoravano la terra corrispondendo almeno un terzo della produzione al signore e proprietario.
Infine, la parte rimanente era destinata a terreno incolto (incoltum) ed era composta da boschi, prati e paludi, dove i coloni e i servitori potevano attingere l’occorrente per integrare le scorte alimentari per poter sopravvivere e continuare a produrre. Qui era permesso raccogliere frutti della vegetazione spontanea, miele, funghi, cacciare, pescare e fare legna. Inoltre, nelle terre la sciate a maggese, cioè a riposo, venivano condotti gli animali perché pascolassero.
Grazie ai contratti stipulati con i coltivatori e ai patti colonici stretti tra i coloni e i latifondisti, è possibile trarre delle informazioni sulle culture cerealicole maggiormente diffuse nelle curtes.
Rispetto all’epoca romana e tardo imperiale, il dato che colpisce maggiormente è la grande varietà di grani coltivati, tra i quali prevale la segale, un tipo di cereale che si adatta a terreni poveri e richiede poche attenzioni colturali. Accanto ad essa, in posizione subordinata ma complementare troviamo l’orzo e il frumento, e cereali minori come la spelta, l’avena, il miglio. Al contrario, la coltura del farro, molto praticata in età romana, perde progressivamente d’importanza, soprattutto in Italia settentrionale.
Anche i legumi vengono consumati abbondantemente, perciò si riscontrano coltivazioni di ceci, fave, fagioli (dall’occhio), piselli e di veccia, utilizzata soprattutto come cibo per l’alimentazione del bestiame.
Inoltre, bisogna ricordare che i Longobardi facevano ampio ricorso ai legumi per ricavare la farina per produrre pane, polenta, zuppe e focacce, piatti molto diffusi tra i ceti rurali della popolazione.

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